martedì 19 gennaio 2021

Sulla (perduta) dialettica politica: apatia democratica e plebiscitarismo .

Mi piace definirmi un amateur dei processi politici e democratici. La mia formazione politica, forse ancora acerba, si potrebbe definire più come un apprendistato sul campo; da studente di violoncello, mi sono ritrovato a indossare la livrea del rappresentante degli studenti, con non poca soddisfazione, ricoprendo ruoli certamente impegnativi ma gratificanti. Il percorso mi ha condotto, giocoforza, data la mia viscerale passione per la “cosa” politica, a tentare di comprendere come determinati processi decisionali prendessero forma e sostanza in quei contesti, notando come la scarsa considerazione sostanziale degli studenti nella formulazione delle scelte politiche influenti comportasse una scarsissima partecipazione degli studenti all’interno della vita istituzionale di istituto e come, di conseguenza, la scarsa partecipazione deteriorasse ancor di più il peso degli studenti nelle decisioni. Ho potuto constatare come questo fenomeno, nella sua complessità che non esporrò qui, sia simile ai sintomi che si manifestano nella totalità dei momenti politici delle realtà nazionali e locali e di come, dunque, da quello che reputo un esempio radicale di apatia, si possano allargare le mie considerazioni alle realtà politiche che noi tutti conosciamo. 

Fondazione Prada 2015

La necessità personale di una riflessione in tal senso scaturisce - oltre che dai recenti avvenimenti in merito alla crisi di governo che, però, rappresentano una situazione anomala rispetto alle crisi precedenti (epidemia di Sars-cov 2 e conseguente senso di responsabilità) - dall'osservazione dei fenomeni di apatia partecipativa e di conseguente sacrificio del principio di rappresentanza - cardine del parlamentarismo estendibile a tutti i consigli rappresentativi locali - sia nelle modifiche istituzionali che nei modi di concepire il processo politico. Questi due fenomeni sono sicuramente correlati, in quanto intercorre tra loro una condizionalità sufficiente e necessaria tale da poter definire tale binomio un "circolo vizioso". Ho tentato di approfondire le mie riflessioni in merito ai processi di cui sopra, tenendo, come punto fermo, la definizione di processo democratico elettivo e partecipativo non tanto come un sistema automatico di affidamento delle redini governative e legislative ad una parte politica in base a metodi elettivi diretti o indiretti, quanto un processo dialettico e critico atto alla creazione di una forte volontà generale, rifiutando il principio dell’alternanza “istituzionalmente forzata” quale strumento democratico, tipico dei sistemi anglosassoni. Un sistema riduzionistico forzato a due polarità tra maggioranze e opposizioni (il bipolarismo maggioritario) crea meccanismi di scelta elettiva a sua volta forzati (la retorica del voto utile), creando una disparità di peso tra le preferenze elettorali dei votanti, una delle cause dell’apatia partecipativa. A ciò si aggiunge anche una critica ai sistemi elettivi plebiscitari che, ancor di più, cambia le basi del metodo democratico, preferendo alla dialettica critica consiliare - intesa come dialettica interna alle assemblee politiche (istituzionali o partitiche) con funzioni di creazione di una volontà generale parziale o totale - la dialettica acritica mediatica e tifosistica incentrata sulla figura del leader. Tutto ciò in nome di una stabilità (o governabilità), comunque non garantita, e su uno snellimento deleterio del momento decisionale democratico che rischia di far divenire la lotta politica un tumulto tra tifoserie; polarizza le scale valoriali delle parti politiche fino alla completa incompatibilità, legando esse alle idee e alle necessità politiche (e umane) del leader, causando una più forte instabilità legislativa e amministrativa. 

L’apatia elettorale e partecipativa è un fenomeno complesso largamente studiato da politologi e sociologi. Non esiste ancora una teorizzazioni che raccolga ogni aspetto di questo fenomeno sebbene i dati empirici raccolti da Maurizio Cerruto nel suo studio La partecipazione elettorale in Italia in «Quaderni di Sociologia 2012» mostrino come l’astensionismo italiano sia legato più da ragioni di apatia che di protesta. Nelle interpretazioni del fenomeno, riprendendo la metodologia di analisi di Stein Rokkan in tre livelli contestuali (macro, meso, micro), Cerruto afferma come, nel contesto micro e, dunque, della soggettività dell’elettore sia: 

“[...] più probabile che una persona vada a votare se ha un interesse generalizzato per la politica, se possiede alcune informazioni di base, se ritiene di poter influenzare le scelte o decisioni con il proprio voto, ovvero si considera dotata di un senso di efficacia: «è molto improbabile che una persona con scarsi interessi per la politica, poche informazioni e limitato senso di efficacia possa motivarsi o essere motivata a sufficienza per recarsi alle urne» (Pasquino, 2009, 71)” 

E’ proprio «il senso di poter influenzare le scelte o le decisioni con il proprio voto» ad influire nella scelta del cittadino di partecipare al momento elettorale (che, per somiglianza, si può allargare al momento democratico consiliare/parlamentare/assembleare). Senso che un sistema plebiscitario disincentiva: i vinti non avranno modo di presentare efficacemente le proprie istanze e i vincitori saranno, tendenzialmente, ben felici di delegare tutta la gestione al leader vincitore senza visione critica, la quale è subito vista come un tentativo di spodestare i vertici. 

L’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione è frutto di un filone di pensiero che vede il cittadino responsabilizzato solo quando può effettivamente influire nella scelta della massima carica esecutiva degli enti con competenze amministrative (richiami al presidenzialismo). Se la maggioranza dei votanti sceglie un candidato, esso diviene il sindaco o il presidente di regione di tutti, mutatis mutandis, con in mano una vasta gamma di strumenti per amministrare il territorio comunale/regionale secondo la legge e secondo, per quanto gli è permesso, la sua discrezionalità, in considerazione del principio di sussidiarietà che l’ordinamento sugli enti locali riconosce nel caso dei comuni. E le preferenze elettorali di chi la pensa diversamente? E’ vero che la rappresentanza delle opinioni politiche, virtualmente, è rappresentata dal consiglio comunale/regionale, ma in che misura, date le leggi elettorali di natura maggioritaria? Un consigliere di minoranza può portare efficacemente le istanze distintive dei propri elettori e delle parti politiche che la pensano come lui senza che si considerino i colori di partito ma solo per mezzo di un processo dialettico critico? Il momento di creazione della volontà generale è stato sostituito dalla continua e reiterata manifestazione della volontà della maggioranza attorno al leader. Quest’ultima, da legittimo sistema di decisione, è stato promosso ad unico arbitro del sistema democratico. Il non poter influire politicamente se non nel momento elettorale, anche se diretto, deresponsabilizza. Ciò avviene perché, in un sistema in cui il vincitore prende tutto (o quasi), il momento più alto di partecipazione politica passa dalla convocazione del consiglio comunale/regionale (e preliminarmente dalle - ahimé - sempre meno attraenti assemblee di partito) alla campagna elettorale. E’ evidente che un sistema del genere garantisca sì la stabilità dei vincitori ma, a lungo decorrere, crei disinteresse nella politica, vista ormai come una semplice scelta del “signorotto” locale e in cui vince chi, tendenzialmente, riesce ad arraffare più voti attorno alla sua figura. Di conseguenza, si può affermare che questa forma di apatia diminuisce la 'domanda' di rappresentanza assembleare, dunque di discussione critica, dato come si possa smuovere efficacemente l’azione amministrativa/governativa grazie ad un uomo solo al comando - tanto meglio se è l’uomo scelto dal votante sulla propria sched(in)a elettorale. Principio il quale, tendenzialmente, diventa sacrificabile per la ragion di Stato - il mito dell’efficienza della discussione parlamentare (come la si definisce? Leggi/ore?) - o per rousseauiani richiami alla democrazia diretta, la quale è divenuta un pretesto per arrogarsi la veste di "vera rappresentanza" del popolo contro le “poltrone” degli oligarchi. Viceversa, le riforme che hanno disposto dei meccanismi elettivi plebiscitari (come le elezioni dirette dei presidenti di regione e dei sindaci) hanno trasformato la lotta politica in una lotta polarizzata che prevede il predominio “forzato” di una parte politica sull'altra invece che risolvere il conflitto costituendo equilibri tra le forze politiche; il cittadino si scoraggia in tal senso dal compiere qualsiasi azione partecipativa che non sia preliminare alle elezioni, come chi fa il tifo per la propria squadra di calcio fino alla fine della partita: c’è chi mostra il suo risentimento per la sconfitta, chi l’accetta - magari preoccupandosi della ormai “famosa” analisi della sconfitta - e chi esulta alla vittoria della propria squadra. In politica, con questi sistemi, vince il più forte, anche in una democrazia che, per definizione, è fondata sull'uguaglianza giuridica dei cittadini. Se nel calcio vince lo sport (quasi sempre), nelle elezioni non vince la democrazia (quasi mai). 

Da dove ripartire? L’apatia va contrastata con forme ragionate e critiche di partecipazione dei cittadini alla vita politica, aumentando la capacità della sfera pubblica di habermassiana memoria di poter avere un suo peso sulle scelte politiche significative della comunità. Vanno incentivati i momenti di discussione critica in cui il cittadino può mostrare e dimostrare la propria visione soggettiva - anche contro chi dell’oggettività delle cose ne fa la propria ideologia (l’amministrazione delle cose come fine della politica). Il ruolo dei partiti, in tal senso, è evidente: definire i propri valori costantemente e far in modo di sintetizzare quanto più possibili in essi le visioni politiche dei cittadini con momenti assembleari diffusi e critici, tenendo ben presente che non esiste un solo paradigma epistemico e politico; che il conflitto tra valori non si risolve nella vittoria di un valore su un altro ma dall’ordine che il conflitto di valori crea: dalla volontà generale che ne scaturisce. In tal senso, appare evidente come sistemi di elezione diretta di stampo plebiscitario neghino la creazione di consessi critici, abbassando la prospettiva politica da una lotta tra valori ad una lotta tra individui, impoverendo la funzione dello sviluppo dell’individuo della politica. Ritornare a sistemi di elezioni di cariche apicali (sindaci, presidenti di regioni) all’interno di assemblee con forte rappresentatività proporzionale, risolvendone quanto più possibile i rischi di opacità, incentiverebbe la partecipazione dei cittadini se, contestualmente, si realizza la più larga partecipazione critica delle comunità locali e nazionali. Partecipazione che contribuirebbe allo sviluppo umano del cittadino, svolgendo altresì un ruolo educativo; in tal modo, sarebbe ben conscio che il suo voto possa essere davvero influente, capace di creare un ordine valoriale e amministrativo il più possibile corrispondente con la volontà generale. 

I rischi di un tal sistema li abbiamo sotto gli occhi: spinte personalistiche all’interno di partiti che ostacolano l’azione amministrativa e di governo, con continue crisi istituzionali e cadute di governi. Ciò avviene per questa cultura diffusa del leader e della gerarchizzazione del processo politico, anche all’interno delle assemblee rappresentative; si rende evidente come non sia tanto il sistema istituzionale ad aver necessità di riforma quanto i processi interni ai partiti e all’interno delle assemblee (conflitto tra segreterie di partito e rappresentanti dei cittadini nelle istituzioni: discussione tendenzialmente bloccata dalle segreterie di partito che impartiscono loro diktat in nome di governismi o di ragioni di Stato). 

La politica moderna è nata dalla discussione critica di principi e di atti ad essi ricollegati. Un ritorno alla scelta plebiscitaria è un ritorno ad una politica che non vuole discutere, ad una politica del potere e dei potenti, ad una politica demagogica e acritica. Qualsiasi compagine politica che si definisca democratica non può permettere questo; deve porsi contro a questi fenomeni e incentivare la discussione critica di atti e provvedimenti. Ne va del bene del “gioco” democratico.

 Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, 2006. Maurizio Cerruto, La partecipazione elettorale in Italia in «Quaderni di Sociologia» n.60, 2012, https://journals.openedition.org/qds/537#ftn12 .

Antonio Di Carlo

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